Il jeans è sicuramente una delle icone “evergreen” dell’abbigliamento casual. Ormai declinato in centinaia di versioni, il jeans ha rappresentato tante sfaccettature delle società durante il quale è stato indossato. Già nel Medioevo si conoscevano i tessuti di Nimes (da cui la derivazione “denim”). Tessuti in cotone resistente e tinti con indigo, che usavano un intreccio tipico in diagonale e che si usavano per le vele delle imbarcazioni o per realizzare tele per coperture.
Grazie alla sua resistenza, questo tessuto inizia ad essere impiegato per la produzione di pantaloni per i camalli di Genova. Già, perché il mitico pantalone jeans nasce proprio a Genova e non nella terra dello zio Sam come molti potrebbero credere. Solo nell’800, con le grandi migrazioni, questi pantaloni sbarcano ai piedi della statua della libertà di New York e da lì inizia un percorso nuovo.
Infatti, a metà dell’800, con il termine jeans si identificava già un modello tipico di pantalone e non più solo il tessuto. E poi, i mitici cow-boys del Far West, inizieranno a farsi confezionare anche giacche.
Gli anni passano, le mode anche, ma i jeans continuano ad essere parte integrante dell’abbigliamento di molte e molte generazioni (finiranno addirittura ad essere banditi nelle scuole, anche se negli anni ’50 verranno riammessi).
Insomma, un vero e proprio esempio di “abbigliamento globalizzato”; non c’è luogo nel pianeta in cui non si indossi questo pantalone. Ma, al di là della storia meravigliosa ed affascinante, il jeans rappresenta anche un punto estremamente dolente della sostenibilità tessile.
Alcuni numeri possono aiutarci ad avere un’idea più esaustiva:
- Il 35 % della produzione mondiale di cotone è destinato alla produzione di blue jeans;
- Per crescere un chilo di fibre di cotone per fare i jeans, sono necessari circa 10.000 litri d’acqua (nella sola India e Cina si stima che il consumo di acqua per questa produzione sia di circa 120 miliardi di litri;
- 56.000 sono le microfibre che si rilasciano ad ogni lavaggio domestico (microfibre che contengono una notevole quantità di residui chimici).
La tintura del jeans richiede necessariamente l’utilizzo di diverse sostanze chimiche (inclusi metalli pesanti).
Recenti studi hanno dimostrato la presenza di enormi quantità di microfibre di denim in numerosi corsi d’acqua, in fiumi e laghi. Gli stessi studi hanno rilevato che, nell’emisfero occidentale, i pantaloni di jeans vengono lavati, in media, dopo due utilizzi. Considerando che, da un lavaggio domestico si staccano 10 volte più microfibre rispetto a quelle rilasciate da una giacca in pile di poliestere, beh, direi che siamo proprio di fronte ad un bel problema.
Da sottolineare che, tracce di denim sono già state ritrovate nell’apparato digerente di alcuni pesci.
A questo punto, la scelta di brand realmente etici (attenzione al “green washing” di molti: non fidatevi della composizione quando si parla di cotone riciclato… la fibra riciclata di cotone, non può essere utilizzata da sola in tessitura, soprattutto per tessere proprio il tessuto jeans) e una maggiore attenzione nella frequenza dei lavaggi, già potrebbero aiutare.